domenica 23 febbraio 2014

Impazzire

Caffè pre - turno al bar di fronte.
E' quasi un mese che lavoro qui: conosco a memoria (quasi) tutto il menu, porto quattro piatti con relativa facilità (dopo innumerevoli prove che hanno attentato all'incolumità di innumerevoli pranzi a casa), vado d'accordo con i colleghi e ho sviluppato una planimetria mentale della disposizione dei tavoli abbastanza accurata, nonostante ci sia un buco nero dal numero 76 al numero 80. La vita è bella.
Il locale non ha ancora aperto e c'è già una bella fila fuori. La speranza di staccare presto si volatilizza in un nanosecondo.
Una delle manager apre la porta d'ingresso, accompagnando al posto i primi clienti. Mi ustiono la lingua trangugiando le ultime gocce del caffè, pago velocemente e penetro la piccola folla.
"Permesso", dico.
"Mi scusi."
Una signora mi guarda storto.
"Lavoro qui", spiego. "Permesso, scusi."
Un signore mi blocca e fa per parlare, sicuramente per chiedermi di aspettare il mio turno.
"Non la voglio superare, lavoro qui. Ma se vuole facciamo a cambio."
Borbotta una scusa e mi lascia passare.
Arranco fino allo spogliatoio e mi cambio: maglietta d'ordinanza, parannanza, cappellino. Quasi cado nel tentativo di sfilare gli stivali infilare le scarpe da ginnastica senza scioglierne i lacci e sistemare l'orlo dei pantaloni tutto contemporaneamente. Devo stare più calma.
Con ben tre minuti d'anticipo entro in servizio. Stasera faccio la runner.
Prima consegna: andata. 
Seconda consegna: andata.
Terza consegna: "Ah, ma è un panino?", chiede indispettita una cliente.
E' una domanda retorica?
"Be', sì... "
Non solo è scritto nel menu: c'è pure la foto.
Mah.
Continuo a fare avanti e indietro dalla cucina percorrendo, secondo un calcolo approssimativo, 1278 chilometri. Tutte calorie che se ne vanno. Ottimo.
Persone entrano, si accomodano, ordinano. Saluto chiunque e mi sento altamente cortese e professionale. Due bambini decidono che il posto migliore per giocare ad acchiapparella è proprio il corridoio davanti alla cucina. Un irrazionale istinto omicida si impadronisce subito di me.
"Jane!" urla la manager. 
"Presente."
"Porta questi al 5."
"Non so portare cinque piatti."
"Be', è ora che impari."
Riesco goffamente ad afferrarli tutti, esultando tra me. Parto. A metà strada, però, il mio cervello fa una cosa strana: va in blocco, resetta tutto il proprio contenuto, si riavvia automaticamente e carica un programma farlocco in cui il numero 33 lampeggia compulsivamente davanti ai miei occhi, così mi dirigo senza esitazione (anche perché questi cinque piatti del cacchio cominciano a pesare) verso il tavolo 33.
Dove sono sedute tre persone.
Ma che ciccioni, penso. 
Fortunatamente una collega ha intercettato il mio percorso, mi ha seguita e ora borbotta al mio orecchio che no, devi portarli al 5. 
Jane: sei un'imbecille. 
Tra l'altro ormai ho appoggiato uno dei piatti. Lo guardo, poi guardo la collega che capisce al volo e lo porta al posto mio. Imbecille.
Decido di tacere e fare finta che sia andato tutto a meraviglia. Questo errore me lo porterò nella tomba. Ovviamente due minuti dopo la collega di cui sopra racconta tutto alla manager. Imbecille.
Torno in cucina, prendo un ordine e tampono contro un bambino. 
"Occhio!", mi fa.
Occhio io? Occhio tu!!!
Il conteggio dei chilometri percorsi sale a 3900. Il caldo si fa sentire, e ho pure fame.
"Sparecchia il 56 così magari capiscono che se ne devono andare", mi dicono.
Raggiungo il 56.
"Scusate, posso portare via il tavolo?"
Il tavolo?!
"Fai pure... ", risponde il cliente perplesso.
Rido con lui e porto via le posate.
Il tavolo...
"Regina?", chiamo la manager.
"Dimmi... "
"Senti, so che qui apprezzate intraprendenza e iniziativa... "
"Certo."
"Be', io ho una proposta: lo sterminio di tutti i bambini che non stanno seduti."
"Approvato. Ma cerca di non sporcare le pareti, per favore."
Mi allontano escogitando sistemi di tortura puliti.
Il turno sta per giungere a conclusione e tutto quello che riesco a pensare è al panino che mangerò non appena sarò libera. 
"Scusami?"
Un cliente chiama e Jane accorre.
"Puoi portarmi della frutta?"
"Mi spiace, non abbiamo frutta. Le consiglierei però un dolce, abbiamo un'ampia scelta di... "
"No no, grazie, troppe calorie."
Ti sei appena mangiato un chilo di patatine fritte e hai scolato una caraffa di birra e mi vieni a parlare di calorie?!
Un po' come quando ordini un McMenu qualunque ma con la Coca light per non sentirti troppo in colpa. No: non funziona.
"Jane? Va'!"
"Dove?"
"Devo rispondere?"
Nell'intricato linguaggio manageriale significa: ciao, hai finito.
E un altro intenso turno è passato.






lunedì 3 febbraio 2014

Start

Sai quando scrivi il curriculum ed esageri apposta alcune esperienze, così, tanto per renderlo più accattivante agli occhi degli eventuali datori di lavoro?
Ecco.
E' sabato sera e io non ho mai fatto la cameriera in vita mia.
La sala si riempie velocemente e un vortice di emozioni inonda il mio cervello, confondendo il modello mentale che mi ero fatta per ricordare la disposizione dei 112 tavoli del ristorante e mandandomi istantaneamente nel panico.
"Ok", dico. "Quello è il 53, giusto?"
"No. E' il 48", risponde Hillary, nuova pure lei ma a quanto pare già più esperta di me.
"Ma come fai?", chiedo disperata.
Ovviamente, di tre new entry sono l'unica senza esperienza. Il solito culo. L'istinto però mi suggerisce di non renderlo troppo evidente, così sorrido con aria ebete ai clienti che prendono posto e mi lambicco il cervello nel tentativo di recuperare i dati andati perduti nel giro di dieci minuti. Ma dove diavolo è il 53?
"Quanti piatti porti?"
"Eh?"
"Quanti piatti sai portare?", ripete Hillary.
Due, uno per mano, penso.
"Quattro", mento.
"Be' dai, quattro va benissimo".
Sicuro.
Fortunatamente ci hanno messe a servire le bibite, perché non conosciamo il menu ed è un ottimo esercizio per imparare alla perfezione la disposizione dei dannati tavoli. Il barista dispensa consigli da mezz'ora, poi piazza quattro birre sul vassoio e dice: "Va'!"
Se non altro un vassoio lo so portare. 
Azzecco il tavolo, mi assegno dieci punti abilità e torno alla mia postazione. Il mondo sorride un po' di più.
La serata procede velocemente, il mio cervello sembra voler collaborare e, com'è mia abitudine, quando non sono sicura di qualcosa chiedo. 
"Dov'è il 53?"
"Là", risponde la manager indicando un punto assurdamente lontano, e mi faccio largo tra una folla di bambini festanti tentando di non versare nemmeno un goccio dalla caraffa assurdamente piena di Pilsner. Appunto mentale: quando avrò figli, li legherò alle sedie e ciccia.
Sono già le 22, il mio turno sta per giungere a conclusione. Dentro di me esulto di già per lo smaccato trionfo, anche perché ho escogitato un piano: Chris, il mio compagno, ha fatto il cameriere per diversi anni e si è offerto un discreto numero di volte di insegnarmi a portare almeno quattro piatti. E' giunto il momento di sfruttarlo. Appunto mentale: non rimandare a domani ciò che avresti potuto fare dal momento del colloquio al giorno dell'inizio.
Mi aggiro tra i clienti con aria tronfia, spacciandomi per dipendente esperta e consigliando i miei dolci preferiti agli indecisi. Il campanello del bar trilla, chiamandomi alla mia occupazione, così torno sui miei passi e afferro l'ennesimo vassoio strapieno di caraffe. 
Conscia dell'onnipresente sguardo della responsabile individuo subitaneamente la destinazione, mi incammino con passo veloce, schivo una pallottola che poi scopro essere un minuscolo bambino e...
PATAPUM!!!
Mi schianto a terra nel bel mezzo della sala. Le voci attorno a me si smorzano, apro gli occhi e il viso della responsabile è a un centimetro dal mio. Brutto spettacolo. E ancor più brutto dev'essere quello che offro io: spataccata disordinatamente tra i cocci rotti, immersa in una pozza maleodorante di birra sprecata, mi siedo faticosamente e accetto la mano di un collega per tornare dignitosamente bipede.
"Sono viva", dico stupidamente.
"Vieni", risponde la responsabile. 
Ok. 
La mia carriera come cameriera è finita nel giro di una serata.
Mi avvio al patibolo, congelando il viso in un sorriso per niente credibile, e seguo il grosso culo della responsabile fin dentro lo spogliatoio. Che mi sciacqua via i vetri di dosso. E disinfetta i piccoli taglietti. E spiaccica un guanto usa e getta pieno di ghiaccio, misteriosamente apparso da chissà dove, sul mio gomito dolorante. E dice:
"Succede più spesso di quanto pensi".
Un nodo si scioglie dentro il mio stomaco. La figura di merda brucia ancora, ma sorrido timidamente e chiedo scusa col mio migliore tono contrito. 
Questo, essenzialmente, il mio primo giorno di lavoro. 
Non il migliore, ma nemmeno il peggiore della mia vita.
Perché, già, di primi giorni di lavoro ne ho affrontati tanti. 
Patologicamente precaria.
Incrollabilmente ottimista.
Mi chiamo Jane. Piacere mio.